Il segreto di Hamida è la storia di una bambina del Bangladesh appena immigrata in Italia e del suo senso di estraniamento e solitudine a contatto con la sua nuova classe italiana. Le viene in aiuto una lumachina che le darà un’ ispirazione sorprendente, per integrarsi senza sacrificare la sua identità.
In collaborazione con:
Centro Sperimentale di Cinematografia –
Cineteca Nazionale
Con il Patrocinio di
Amnesty International
Associazione Italiana Psicologia Analitica
Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo
MigrArti MIBACT
Con il sostegno di:
Fondazione Migrantes
Associazione Italiana Psicologia Analitica
Cooperativa Sociale META
:
Regia
Cristina Mantis
Soggetto e sceneggiatura
Cristina Mantis, Barbara Massimilla
Fotografia/riprese
Leonardo Celi, Cristina Mantis
Scenografia
Timi Bylyku
Montaggio
Cristina Mantis
Musica
Alexandros Hahalis, Rakesh Chaurasia
Suono
Rocco Forte
Aiuto Regia
Elisa Galletto
assistente operatore
Sheikh Amanur Rahman
Cast
Ikra Islam, Basim Hmami, Tommaso Penso, Anna Savoca, Priscilla Celi, Huque Nusrate, Huque, Tiaba Huque, Sabina Traversa, Maria Rita Porfiri, Floriana Giorgia Cola, Diego Crescenzi, Leonardo Di Giacinto, Karim Jaber, Asfika Tanjum Khan, Nisey Mazi, Sara Pechini, Gian Maria Salerno, Kanis Fatama
S-cambiamo il mondo. Rassegna su cinema e migrazione Il cinema come strumento ideale per stimolare processi di reciproca curiosità e conoscenza che facilitino l’integrazione attraverso l’empatia e l’immedesimazione con/nell’altro.
In collaborazione con Centro Sperimentale di
Cinematografia-Cineteca Nazionale, con il patrocinio di Amnesty International sez. Italiana, Ministero dei Beni e delle
Attività Culturali, Associazione Italiana di Psicologia Analitica
Vogliamo un cinema non solo che emozioni ma che possa offrire spunti di analisi riguardo al sociale, al valore della coesistenza tra le culture e i popoli, che sensibilizzi alla bellezza dell’incontro con altri mondi, al piacere di conoscerli e non solo al dovere di rispettare chi viene da altre terre, da altri riti, da altri miti e religioni. La rassegna organizzata da DUN-Onlus e dalla rivista EIDOS cinema psyche e arti visive a cura di Barbara Massimilla prevede un’alternanza tra proiezioni di film e dialoghi interetnici e interculturali condotti da esponenti, stranieri e italiani, interessati al fenomeno della migrazione e al cinema attraverso uno sguardo psicoanalitico, antropologico, filosofico, socio-politico con la partecipazione di un pubblico multietnico. Quattro sezioni monotematiche coinvolgeranno giovani e adulti, di diverse nazionalità nella condivisione del cinema d’autore centrato sulle narrazioni culturali e sul diritto a migrare. Lo scambio riflessivo servirà a valorizzare e acquisire una maggior consapevolezza della propria identità culturale e di quella dell’altro oltre i confini delle proprie geografie interiori. Il video/sigla, logo di questa seconda edizione, ispirato liberamente da un frammento d’infanzia di una migrante è della regista Cristina Mantis. In collaborazione, come la prima edizione, con il Centro Sperimentale di Cinematografia-Cineteca Nazionale. Con il Patrocinio di Amnesty International Italia, Associazione Italiana Psicologia Analitica, Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo. Realizzata con il sostegno di Fondazione Migrantes, A.I.P.A e META.
Giovedì 15 giugno «Nuove identità»: dialogo interculturale.
Interventi di Marco Rossano, Suranga Deshapriya Katugampala, Chiara Tozzi, Celestino Victor Mussomar
Venerdì 16 giugno «Culture ed echi del femminile»: dialogo interculturale
con Stefano Carta, Ugoma Francisco, Sonya Orfalian, Habte Weldemariam
Sabato 17 giugno «Lutto e Culture»: dialogo interculturale.
Intervento di Mons. Pierpaolo Felicolo (direttore Fondazione Migrantes-Roma), Clementina Pavoni, Filippo Strumia
Domenica 18 giugno «Confini e difficili coesistenze»: dialogo interculturale.
Interventi di Riccardo Noury (portavoce Amnesty International), Gianluigi Di Cesare (vicepresidente A.I.P.A.), Paolo Masini e Chiara Fortuna (D.G.C. MIBACT), Filomeno Lopes,
Mukuna Samulomba Malaku
Vincitore del premio G.A.L. dell’assessorato alla Cultura del Comune di Sabaudia (2006)
I
Roma. Quattro lettere, un nome. Io non sapevo nemmeno dove fosse e cosa fosse l’Italia, figuriamoci Roma. Al mio paese, l’Ecuador, quando si sogna di fuggire si pensa agli Stati Uniti non certo all’Italia. Dell’Italia sapevo solo che era il posto lontano dove erano andate una alla volta le mie zie, le mie cugine e mia sorella per scappare dalla miseria da cui eravamo tutte imprigionate. Un posto dove puoi lavorare per mandare soldi a casa e vivere per te stessa. Io fui l’ultima ad arrivare, era il 2002. Ci misi tanto a decidere, forse non fui nemmeno io a decidere. Ero arrivata ad un punto pericoloso della mia vita, vicina al non ritorno dall’inferno. Quattro figli da mantenere, un non compagno, non marito violento che mi stava uccidendo piano piano fisicamente, perché moralmente l’aveva già fatto tante volte. La fame, la violenza e la povertà ti fanno cadere in ginocchio e io avevo già fatto cose che mi porterò dentro per sempre come un marchio e una condanna. Ma dissi, o forse altri dissero per me, basta. Basta prima che fosse troppo tardi. Mi ritrovai su un aereo con un biglietto, un debito enorme ancora prima di iniziare a lavorare e una valigia senza spago, riempita in una notte con le poche cose che mi erano rimaste. Ne portavo molte di più dentro l’anima, ma erano cose che avrei lasciato volentieri fuori dalla valigia.
Avevo 27 anni ma mi sentivo come ne avessi vissuti il doppio. Arrivai una domenica mattina; non ricordo nemmeno se c’era il sole o faceva freddo. Per me fece freddo ancora per molti mesi, anche in piena estate. Era inizio Aprile e all’aeroporto c’erano tutti i miei parenti. Zie, sorella, cugina: mi presero per mano come si fa con i bambini e mi cominciarono a spiegare. Io mi tenevo stretta alla mia valigia non per paura che me la rubassero, era il mio cordone ombelicale, la mia compagna di viaggio e di speranza di rinascita. Intanto mi dissero che non potevano portami a casa e quindi saremmo dovute restare in giro tutta la giornata fino alla sera con la mia valigia, perché non si poteva rientrare e stare in casa da sole prima del ritorno dei signori da cui lavoravano.
Salimmo su un treno e mi annunciarono che saremmo andate alla Stazione Termini: lì avrei conosciuto tante altre persone del nostro paese, perché è li che ci si ritrova. Io ascoltavo, cercavo di sorridere, mi sforzavo, ma sinceramente non capivo ancora bene dove fossi. Fu mia zia, la più anziana del gruppo a chiedermi quanti soldi avessi con me. Cinquanta dollari risposi, era tutto quello che avevo nel passaporto. Mi mise in mano un foglio da dieci euro e mi disse: questa è la moneta; ho avuto il permesso dai signori di farti dormire da me per due notti. Mercoledì comincerai a lavorare dalla famiglia che ti abbiamo trovato. Ma in questi due giorni non potrai stare in casa Katty, dovrai prendere l’autobus e fare da sola. Andrai a conoscere la signora dove lavorerai, poi potrai fare quello che vuoi ma non tornare prima delle otto. E stai attenta agli uomini, specialmente agli italiani.
Io tremavo, non so se dal freddo o dalla paura. Forse era solo il freddo, perché la paura l’avevo già conosciuta bene nell’altra mia vita. Io vivevo in una città di mare dove c’è sempre il sole, Ecuador, lo dice anche il nome equatore e non sapevo cosa fossero giubbotti, cappotti o cose simili. Ci poggiammo su una panchina della stazione, qualcuna mi portò un panino e mentre lo mangiavo tornò una mia zia con un giubbotto pesante, nero, imbottito. Non avevo mai indossato niente di simile: tieni mi disse, è tuo, col primo stipendio me lo ripagherai. La ringraziai e indossandolo capii di essere arrivata a Roma: dovevo cominciare ad aprire la mia valigia.
II
La mia valigia si svuotò presto delle poche cose che avevo portato e cominciò a riempirsi di nuove situazioni, di piccole fotografie e ancor più piccole conquiste. Ricordo di averla riempita prima di tutto di parole: romane più che italiane: “ahò, ma ‘ndò vai, ammazza che ber culo”. Per noi straniere, peggio se giovani, era un prezzo obbligato da pagare. L’essere cose prima che persone. Mi vergognavo sinceramente ogni volta e ci stavo male: non capivo perché quando ti offrivano un caffè e tu magari per non morire di solitudine accettavi, non potevano fare a meno di cominciare a toccarti; prima una spalla, poi un braccio, poi magari anche la gamba finche non li fermavi e allora diventavano sgarbati, maleducati.
Il più stupido ricordo che ho è quello di un tassista, che una sera mi offrì la corsa gratis e cento euro se solo gli avessi fatto toccare le mie gambe. Era una sua mania mi disse, come fosse la cosa più naturale del mondo. Avevo voglia di mettermi a piangere: perché avevo fatto tutti quei chilometri, perché lavoravo a tempo pieno senza sosta sei giorni e mezzo la settimana per provare quelle stesse umiliazioni che avevo dovuto subire in precedenza? Ma poi ci dormivo su, pensavo ai miei quattro figli e a quanto stavo facendo per loro. Dopo un po’ cominciai anche a capire come fidarmi delle persone e come comportarmi. In fondo mettere in valigia una parolaccia, un “vaffanculo” non era cosi difficile.
Dopo la lingua e le parole, la mia valigia fu anche una sfida con la cucina. Io lavoravo a pieno orario presso una famiglia. Avevano una bambina che dovevo accudire e una casa da governare, quindi pranzi e cene da preparare. La cosa non mi spaventava: ne avevo accuditi quattro di figli, spesso senza avere niente per mangiare: qui avevo il frigorifero pieno e bastava mi facessi vedere sempre occupata. Ma che ne sapevo io della cucina italiana? I bucatini all’amatriciana spiegati dalla signora erano facili da preparare ma in Ecuador la pasta quasi non si usa, molto più il riso. Non scorderò mai la faccia della signora quando vide che invece di metterli nell’acqua che bolliva misi i bucatini crudi direttamente nella padella col sugo. Per me si cuocevano così, che diamine! Ci misi poco ad imparare e a riempire la mia valigia di sapori e gusti nuovi e non nego che sono diventata brava a cucinare italiano, mettendoci anche un pizzico di fantasia sudamericana. Oggi quando mi fanno un complimento per la lasagna mi inorgoglisco ma non posso fare a meno di ridere rivedendo in un attimo quella padella di bucatini crudi al sugo!
Nella valigia di un viaggiatore non dovrebbe mai mancare una mappa, una guida, ma la mia valigia aveva poco spazio per questo. Io per i miei primi quattro anni a Roma ho lavorato a tempo pieno e avevo libero solo il giovedì pomeriggio. All’inizio la fretta di dover imparare tutto un mondo di cose nuove, (lavatrici, lavastoviglie, detersivi per i panni, per i piatti, per i pavimenti, per le porte, per le finestre mio dio che confusione!) non mi lasciava molto tempo per rendermi conto di dove stavo, di che cosa fosse Roma.
Il giovedì pomeriggio per me era un autobus che mi portava a Piazza Mancini dove mi chiudevo in una cabina a parlare con i miei quattro figli per ore e poi una fuga a Stazione Termini, all’ufficio dove spedivo in Ecuador i soldi che guadagnavo. Qualche volta ci si incontrava al Colosseo, un punto di ritrovo per la comunità ecuadoriana, ma io francamente non amavo molto questi posti. Mi facevano tornare troppo la nostalgia e mi sentivo sradicata dal mio paese e non ancora inserita in questo. Né carne né pesce come dite qui. Con mia cugina preferivamo camminare; avevamo imparato per non perderci a seguire la linea dei binari che da Piazza Mancini arriva a Piazzale Flaminio.
Andavamo a piedi per risparmiare sul biglietto, perché questa è la realtà e anche un Euro può essere importante per chi a migliaia di chilometri ti chiede sempre qualcosa di materiale, visto che l’affetto non puoi darglielo più. Avanti e dietro, avanti e dietro: qualche volta ci spingevamo fino a Via del Corso per lasciarci incantare da quelle vetrine che potevamo solo guardare. Forse erano sei mesi o forse più che stavo a Roma, quando un giorno all’altezza di Via Flaminia vicino la chiesa di Santa Croce, una signora un po’ anziana ci si avvicinò dicendo: “Scusatemi non sono pratica di questa zona, ma dove si va per Piazza Euclide?” Mia cugina stava lanciandosi nella solita formula “Siamo dell’Ecuador ci scusi non sappiamo” quando la fermai con un braccio. Il giorno prima il signore presso cui lavoravo mi aveva mandato a ritirare alcune analisi proprio in un laboratorio vicino Piazza Euclide. Spiegai la strada per filo e per segno alla signora, muovendo le braccia come facevano i romani a cui chiedevo io informazioni. La signora ringraziò e se ne andò verso Euclide. Mia cugina mi guardava perplessa: io mi sentivo orgogliosa di me stessa e cominciavo a prenderci gusto. La mia valigia cominciava ad essere sempre più piena, ordinata e senza pesi inutili.
III
Una valigia che si rispetti porta con sé anche qualche maquillage per l’anima. Alle volte mi sentivo come un clown: dovevo truccarmi per nascondere le cicatrici e regalare un sorriso a chi di me conosceva solo l’involucro esterno. Poi circa due anni dopo, la maschera si sciolse e la mia valigia cominciò ad essere troppo piccola per contenere il sentimento più grande e più bello. Io ero incredula perché questo non l’avevo messo in preventivo e venivo da un passato troppo brutto. Poi non sapevo bene cosa poteva essere il mio futuro, andare via rimanere, ma la passione prese il sopravvento e Roma ci mise del suo.
Stefano non si risparmiava: ogni giovedì qualcosa di nuovo da mettere in valigia: i tramonti, i vicoli, gli angoli di Testaccio e poi San Pietro, tanti anni a Roma e per la prima volta San Pietro. Non c’è un doppio fondo nella mia valigia e forse non ci sono più angoli dove si nascondono frammenti dell’anima.
Io come tutti ho avuto qualche problema piccolo, qualcuno più grande, ma devo dire che nella mia valigia non ha trovato posto il razzismo. A volte mi hanno trattata con sospetto perché straniera, altre volte con commiserazione perché povera, qualche idiota ha cercato di approfittarsi e quelle volte che è successo forse le ho rimosse. Preferisco ricordare la gentilezza delle impiegate della Posta che qualche volta hanno chiuso gli occhi su qualche lieve eccedenza peso dei pacchi che mensilmente spedivo in Ecuador; preferisco ricordare la fiducia che i miei datori di lavoro mi hanno accordato quando sola e senza nessuno a cui poter chiedere, dovetti rivolgermi a loro per saldare i debiti verso chi mi aveva pagato il biglietto aereo, facendomeli trattenere un po’ alla volta sullo stipendio.
Preferisco ricordare la cortesia di chi negli uffici pubblici cercava di aiutarmi a raccapezzarmi tra le pastoie della burocrazia per ottenere il tanto sospirato permesso di soggiorno; preferisco ricordare la gentilezza di quel medico che mi curò malgrado il mio libretto sanitario fosse scaduto e io non l’avessi rinnovato perché il giovedì pomeriggio avevo sempre altro da fare.
IV
Fu una mattina, all’improvviso. Mi alzai e la trovai lì, mi guardava pur non avendo gli occhi. Le mandai un sorriso che non ricambiò e mai avrebbe potuto; la carezzai dolcemente come si fa con una persona cara. Andai all’aeroporto, la sollevai e la poggiai lentamente sulla bilancia. L’impiegato la mise sul nastro che la ingoiò velocemente. Chiusi gli occhi e sentii il rombo di un aereo in lontananza.
Dopo quattro anni lei era tornata da dove era venuta, io potevo restare; il mio viaggio era finito, il suo appena cominciato. “Tenetela cara figli miei” fu l’unica cosa che scrissi nel biglietto che l’accompagnava.
S-cambiamo il mondo. Rassegna su cinema e migrazione Il cinema come strumento ideale per stimolare processi di reciproca curiosità e conoscenza che facilitino l’integrazione attraverso l’empatia e l’immedesimazione con/nell’altro.
10.06.2016 – 12.06.2016
«È urgente la necessità di analizzare, comprendere ed elaborare le possibili modalità d’incontro, che le persone attivano nel loro essere in movimento verso le terre e l’altro – per un’analisi approfondita che non riduca e limiti la dignità dell’uomo ad un numero, deprivandolo del diritto fondamentale ad essere riconosciuto e legittimato nella sua specifica identità etnica e culturale. In questo contesto il cinema appare strumento ideale per stimolare questi processi di reciproca curiosità e conoscenza che rendono possibile l’integrazione attraverso l’empatia e l’immedesimazione con/nell’altro. La rassegna, organizzata da DUNOnlus, associazione dedicata alle cure gratuite psicologiche ai migranti, dalla rivista EIDOS cinema psyche e arti visive, in collaborazione con Cooperativa Sociale META, Centro Sperimentale di CinematografiaCineteca Nazionale, con il patrocinio di Amnesty International sez. Italiana, Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, Associazione Italiana di Psicologia Analitica, attraverso incontri e proiezioni di film sulla migrazione invita un pubblico multietnico a una profonda riflessione sul tema dell’uguaglianza che ci coinvolge tutti sul piano umano ed etico» (Barbara Massimilla).
Venerdì 10 ore 17.00 Presentazione della rassegna con Alberto Angelini, Luigina Malatesta, Barbara Massimilla, Annamaria Sassone
Tra arte e migrazione ore 17.30 Incontro moderato da Barbara Massimilla con Erica Battaglia, Filomeno Lopes, Sonya Orfalian, Jean Léonard Touadi
ore 18.30 Anche io ho un nome e cognome di Cinzia D’Auria e Filomeno Lopes (2015, 20′) Partendo dall’importanza del nome nella tradizione africana, il video porta avanti una campagna di sensibilizzazione sul problema dell’immigrazione e del razzismo. In particolare, con l’aiuto della musica, pone l’attenzione sull’uso improprio di termini linguistici che contribuiscono a creare stereotipi e ad acuire le tensioni razziali.
ore 19.00 Mediterranea di Jonas Carpignano (2015, 107′) Il film d’esordio del giovane regista italo-americano, presentato alla 54° Semaine de la Critique di Cannes 2015, si ispira alla rivolta dei braccianti africani di Rosarno nel 2010. Ayiva lascia il Burkina Faso con la speranza di trovare un lavoro per sostenere sua figlia e la famiglia d’origine in Africa. Dopo un lungo e doloroso viaggio approda in Italia e cerca di inserirsi in un paese della Calabria vivendo un clima di ostilità e tensione. Per gentile concessione di Luxbox
ore 21.15 Incontro con Cristina Mantis e un rappresentante di Amnesty International
a seguire Redemption Song di Cristina Mantis (2015, 70′) Nel momento più caldo delle migrazioni e degli sbarchi sulle coste europee, Cissoko, un rifugiato nordafricano, decide di tornare in patria per dissuadere i suoi fratelli a partire per un falso sogno. L’intento è allertare i suoi fratelli in Africa sui rischi dell’emigrazione, con l’obiettivo di dare un contributo ad arginare la perdita umana dell’Africa. Giunto in Guinea, inizia a fare delle proiezioni che informino la sua gente sulle precarie condizioni in cui vivono molti immigrati, spesso drammaticamente vicine alla schiavitù, e si sposta in Senegal, a Ile de Gorée, per una più forte riflessione. “Virtualmente” accompagnato nel suo viaggio da alcuni artisti che rafforzano il sound emotivo e dal ricordo di Thomas Sankara, il protagonista sollecita la sua gente verso un’emancipazione interna della propria terra, convincendoli sulla necessità della fine dei conflitti che tanto la impoveriscono e porta ad esempio i discendenti degli schiavi che vivono nei quilombi brasiliani, pacificamente uniti e fieri delle loro origini africane. Il 13 febbraio 2016, all’isola di Gorée in Senegal, si è tenuta la prima presentazione ufficiale del documentario in Africa Occidentale; è poi stato proiettato in alcuni centri della periferia di Dakar.
a seguire Performance musicale dal vivo di Moustapha Mbengue, Moussa Ndao, Emilio Spataro
sabato 11 Memorie di migrazione e attualità ore 17.00Incontro moderato da Barbara Massimilla con Davide Albrigo, Luisa Cerqua, Marzia Mete, Stefano Rulli, Matteo Sanfilippo
ore 18.00 Lettere dal Sahara di Vittorio De Seta (2004, 123′) Assane, un giovane senegalese musulmano, dopo la morte del padre, interrompe gli studi per emigrare in Italia. Naufraga a Lampedusa. Riesce a fuggire, raggiunge Villa Literno, vicino Napoli, dove un cugino, Makhtar, gli ha assicurato un lavoro. L’impiego si rivela precario, l’ambiente pericoloso. Raggiunge a Firenze una cugina, di madre francese, indossatrice di moda. Salimata lo ospita, potrà trovargli lavoro, metterlo in regola con i documenti. Ma Assane non può accettare il fatto che Salimata conviva con un architetto italiano perché contrario ai suoi principi religiosi. A Torino, dove non conosce nessuno, sorretto dalla fede e dalle lettere d’incoraggiamento di un suo anziano professore, affronta le dure prove della clandestinità.
ore 20.10 Incontro moderato da Barbara Massimilla con Ugoma Francisco, Nicole Janigro, Andrea Segre, Cecilia Sena Monteiro
ore 20.45 Io sono Li di Andrea Segre (2011, 102′) Shun Li è un’immigrata cinese che lavora a Roma in una fabbrica tessile facendo molto più del necessario per pagare il suo debito e far venire suo figlio, rimasto in Cina, in Italia. Trasferita a Chioggia per fare la barista, lavora in un’osteria frequentata soprattutto da vecchi pescatori. Sorgono alcuni problemi, primo fra tutti la lingua, fortunatamente Li farà amicizia con un vecchio pescatore chiamato il Poeta, jugoslavo e immigrato in Italia da ormai 30 anni. Tra Shun Li e il pescatore nasce una relazione che è malvista da tutti, sia italiani che cinesi. Per evitare che influisca negativamente sulla possibilità che arrivi il figlio, Shun Li decide di interrompere la relazione e va a lavorare in una fabbrica import-export. Un giorno, molto prima del previsto, arriva suo figlio dalla Cina con grande gioia per la madre, che si chiede chi abbia pagato il suo debito. Il pensiero di Shun Li va all’amico pescatore di Chioggia, cerca di informarsi, ma un’amara sorpresa la attende.
ore 22.30 Mare chiuso di Andrea Segre e Stefano Liberti (2012, 60′) Tra maggio 2009 e settembre 2010 oltre duemila migranti africani vennero intercettati nelle acque del Mediterraneo e respinti in Libia dalla marina e dalla polizia italiana; in seguito agli accordi tra Gheddafi e Berlusconi, infatti, le barche dei migranti venivano sistematicamente ricondotte in territorio libico, dove non esisteva alcun diritto di protezione e la polizia esercitava indisturbata varie forme di abusi e di violenze destinando tutti i clandestini alla detenzione. Nel marzo 2011, lo scoppio della guerra in Libia ha permesso la fuga dalle carceri a migliaia di migranti, tra i quali anche profughi etiopi, eritrei e somali che erano stati respinti dalle autorità italiane, trovando rifugio nel campo UNHCR di Shousha in Tunisia, dove raccontano la loro esperienza di fronte alla telecamera degli autori. Per gentile concessione di ZaLab
domenica 12 Donna e migrazione ore 16.30 Incontro moderato da Barbara Massimilla con Alfredo Ancora, Laura Bispuri, Cristina Comencini, Habte Weldemariam
ore 17.15 Bianco e nero di Cristina Comencini (2008, 100′) Elena è una professionista che lavora in un’organizzazione che si occupa di Africa. Suo marito Carlo, completamente disinteressato al mondo della moglie, a una conferenza per la presentazione di una campagna di sensibilizzazione sui problemi del continente africano, conosce Nadine, la bella moglie senegalese di un collega di Elena. Tra i due nasce un amore, e alle difficoltà della relazione extraconiugale si mescoleranno quelle di un amore inter-etnico, mettendo a nudo paure e i pregiudizi da parte di entrambe le etnie.
ore 19.00 La vergine giurata di Laura Bispuri (2015, 90′) Hana è un’orfana albanese, vive da un montanaro sposato e con una figlia di nome Lila, coetanea di Hana. In quel contesto, la donna è costretta a seguire le rigide regole del Kanun, diritto civile attivo tra i montanari albanesi che, in mancanza di figli maschi, possono spingere una donna ad autoproclamarsi uomo, seguendo quel tipo di formazione e rinnegando tutti gli aspetti del femminile. Hana diventa Mark e condurrà una vita da uomo. Quando molti anni dopo Mark arriverà in Italia, il contatto con una cultura diversa le consentirà di ricercare la Hana sepolta. Per gentile concessione di Vivo Film
Lampedusa: un’isola senza confini ore 20.45 Incontro moderato da Barbara Massimilla con Stefano Carta, Massimo Germani, Alfredo Lombardozzi
ore 21.30 Fuocoammare di Gianfranco Rosi (2016, 106′)
Fuocoammare è stato premiato con l’Orso d’oro al Festival internazionale del cinema di Berlino. Seguendo il suo metodo di totale immersione, Rosi si è trasferito per più di un anno sull’isola di Lampedusa facendo esperienza di cosa vuol dire vivere sul confine più simbolico d’Europa, raccontando i diversi destini di chi sull’isola ci abita da sempre, i lampedusani, e chi ci arriva per andare altrove, i migranti. Da questa immersione è nato Fuocoammare. Racconta di Samuele che ha 12 anni, va a scuola, ama tirare con la fionda e andare a caccia. Gli piacciono i giochi di terra, anche se tutto intorno a lui parla del mare e di uomini, donne e bambini che cercano di attraversarlo per raggiungere la sua isola. Ma non è un’isola come le altre, è Lampedusa, approdo negli ultimi vent’anni di migliaia di migranti in cerca di libertà. Samuele e i lampedusani sono i testimoni a volte inconsapevoli, a volte muti, a volte partecipi, di una tra le più grandi tragedie umane dei nostri tempi.
Una vecchia casetta che sembrava “turchese” era in mezzo a un grande terreno circondata di alberi e fiori, proprio tanti alberi e fiori. Eh sì, a mamma guela piacevano tanto i fiori, erano la sua passione e anche la sua maniera di sentirsi in pace con il mondo. Diceva che ogni volta che piantava un seme rinasceva insieme a loro. A Mamma guela piaceva anche decorare il suo angolo favorito che si trovava accanto alla finestra dove c’era una mensola grande, modesta, imponente e un tantino folkloristica. Su questa mensola era sistemato tutto in maniera strategica, c’era un po’ di tutto. C’era qualche foto dei nipoti o della famiglia e nella parte superiore, sia a destra sia a sinistra, c’erano due vasi con dei fiori di diverso tipo: a volte artificiali altre naturali, questo dipendeva – credevo – dalla stagione, anche se da noi fa sempre caldo. Ad ogni modo i fiori erano molto belli e ci donavano tanta gioia. C’era anche qualche souvenir, qualche cristallo colorato e tante altre cose ancora tra cui una bambola di farro delicata, sensuale e piena di storia, che era la sua favorita perché se ne prendeva cura con una sorta di gelosia. La mensola veniva spolverata una volta a settimana con dei panni di cotone che erano molto morbidi, adatti per eseguire il delicato lavoro. Questa tipologia di panni non permetteva di spandere la polvere e, secondo lei, faceva brillare le ceramiche davvero bene. Solo lei poteva toccare, spolverare e spostare le cose all’interno della mensola, sopratutto la bambola prediletta. Sapendo che lei non permetteva mai a nessuno di toccare la mensola, rimasi sorpresa una mattina di particolare bellezza, mentre raccoglievo pomodori, origano e specie varie nel nostro orto giardino, quando mamma guela mi chiese di spolverarla.
Con grande stupore e nervosismo, mi mossi per cominciare il lavoro richiesto. Mi fermai all’ingresso e notai che all’interno della nostra casetta, accanto alla finestra e davanti alla mensola, mi aspettava mamma guela con l’inseparabile panno di cotone in mano. «Facciamolo insieme», disse lei e iniziò dal ripiano più basso, mentre io cominciai invece da quello più alto. A dire il vero, credevo che fosse un lavoro molto lungo e noioso ma non lo era affatto. Al contrario, il lavoro divenne molto interessante e piacevole. Ogni singolare oggetto aveva la sua magia e perciò si rimaneva incantati solo con il tocco di uno di loro. Nonostante il soddisfacente compito, la mia ansia iniziò a crescere ogni volta di più notando che rimanevano pochi oggetti e tra quelli c’era la bellissima bambola colorata con la sua lunga e delicata treccia, il suo vestito pittoresco colmo di vita, e per ultimo – ma elemento ancora più importante – il suo cestino pieno di fiori che portava in testa. Mamma guela prese il penultimo articolo che era un bellissimo e maestoso elefante, da cui rimasi colpita per via delle sue lunghissime zanne.
Mentre lei lo puliva con cura canticchiando, io ero completamente paralizzata davanti alla bambola senza permettermi neanche di toccarla.
– Sei stanca? – mi chiese finalmente dopo qualche secondo che mi sembrò un’eternità.
– No mamma guela.
– Allora non abbiamo ancora finito, prendi l’altro pezzo di panno pulito e pulisci la bambola.
Mi misi a lavorare per finire il nostro delicato compito.
– Lo sai, cara?
– Sì, mamma guela…
– Questa bambola apparteneva alla tua bis bis nonna, mi è stata donata quando avevo vent’anni e come hai già notato è una bambola molto particolare perché è priva di lineamenti. Dicono che la sua mancanza di volto sia frutto della mescolanza delle razze africane, spagnole e taine. Questa bambola è come se non avesse una sola razza definita o predominante perciò non può avere un volto proprio – disse mamma guela.
– Oh, ecco perché non ha la bocca, il naso, né tanto meno gli occhi – riuscii solo a dire come se fossi stata ipnotizzata da quella storia; infatti lo ero, perché non riuscivo a distogliere lo sguardo né da mamma guela né dalla bellissima bambola.
– Comunque, che peccato vorrei tanto che la bambola avesse un volto, mamma guela.
– Capisco… Sei confusa, ma puoi fare sempre una cosa sicuramente, cara.
– Cosa, mamma guela? –, domandai con il desiderio crescente di sapere, senza nascondere ovviamente la mia ansia di scoprire cosa avrei mai dovuto fare per far sì che quella bambola avesse un volto.
– Semplice, puoi immaginarlo, cara.
– Immaginarlo?
– Sì, ad esempio puoi immaginare, mentre guardi la bambola, il volto di tua mamma, di un’amica o di una donna qualunque che hai incontrato per strada, in tal modo lei avrà un volto. Io, per esempio, quando la guardo vedo te, cara, e per questo motivo da oggi la bambola è tua. Vorrei donartela come è stata donata a me tanto tempo fa. So che saprai prenderti cura di lei, apprezzarla e soprattutto che saprai cosa fare con lei da adesso in poi.
Io non stavo nella pelle dalla felicità, non riuscivo a crederci e con gli occhi pieni di lacrime, ormai sopraffatta dall’emozione, abbracciai mamma guela e la ringraziai! Lei mi guardò teneramente e mi rivolse un sorriso compiaciuto, dopodiché mi disse:
– Abbiamo finito cara, vai pure.
Mi diressi verso la mia stanza con il mio nuovo tesoro, rimasi a lungo ad ammirarlo e a pensare al bel momento magico appena vissuto; con grande cura posizionai il mio nuovo dono sopra il tavolino accanto al mio letto. Era la posizione giusta, da lì avrei potuto ammirarla prima di addormentarmi, ogni sera.
Molto lontana da casa, trascorso tanto tempo dalla bella e tiepida mattina in cui avevo scoperto quanto è bello essere donna, mentre camminavo per la magica e meravigliosa Roma, incrociai lo sguardo penetrante e caldo di una bellissima bambina, che saltellava vivacemente per gli stretti vicoletti della città eterna. Mi riguardò ancora e proprio lì mi fece un sorriso, che secondo me era molto simile a quello di mamma guela il giorno in cui mi aveva donato la bambola, mi trasmise lo stesso effetto di “pace e gioia”. La madre della bimba, che era poco distante da noi, si avvicinò e disse:
– È molto vivace, spero che non ti abbia importunata.
– Ma no, anzi, ha solo ripreso la sua palla e ha continuato a giocare, ha una bellissima bimba complimenti.
– Molte grazie, signorina, molto gentile! Sai, il tuo sguardo trasmette molta tenerezza, tieni, ti do un souvenir. Torniamo dalla sua festa di compleanno e mi farebbe piacere regalarti questo piccolo fiocco che è l’ultimo rimasto. Adesso devo proprio scappare. Ci aspettano. Valeria di’ ciao!
Senza che io riuscissi a dire nemmeno una parola, madre e figlia sparirono fra la folla.
– Grazie tante per il dono, Valeria! – gridai finalmente.
Quella notte nell’intimità della mia stanza, mentre ascoltavo il silenzio della città ormai addormentata, presi il fiocco e lo misi accanto alla mia imponente bambola. Mentre la guardavo, immaginai quella bellissima bambina e il suo affascinante sguardo sorridente. E proprio in quel momento ricordai il volto di mamma guela. Credo che lei sarebbe stata felice di sapere che ero riuscita a immortalare quel momento. Sopraffatta dell’emozione e con il cuore colmo di felicità, mi addormentai lieta di sapere che quella notte i miei sogni non erano soli.