S-CAMBIAMO IL MONDO — III edizione 7-10 giugno 2018

La rassegna organizzata da DUN-Onlus, associazione dedicata alle cure psicologiche ai migranti, in collaborazione con la rivista “Eidos cinema psyche e arti visive” e il Centro Sperimentale di Cinematografia-Cineteca Nazionale, nella terza edizione continua la sua ricerca sul tema dell’intercultura attraverso il cinema. Patrocinata da: Amnesty International Italia, Regione Lazio, Associazione Italiana Psicologia Analitica. Realizzata con il sostegno della Fondazione Migrantes e della Cooperativa Sociale META. Quattro sezioni monotematiche coinvolgeranno il pubblico di diverse nazionalità, nella condivisione del cinema d’autore centrato sulle narrazioni culturali e sul diritto a migrare. Si vuole spingere lo sguardo oltre ‘il dovere’ che come occidentali proviamo nel prendere atto del diritto fondamentale dei popoli a migrare per molteplici e legittime motivazioni, poiché il fenomeno migratorio è costitutivo e strutturale della nostra identità di specie. E’ necessario coltivare eticamente l’uguaglianza che ci legittima tutti a riconoscerci sullo stesso piano, in base all’identità etnica e geografica di ogni essere umano. Vogliamo precorrere i tempi in termini di speranza, spostare l’asse dalla migrazione al valore della ‘coesistenza’ tra le culture e i popoli, per scoprire le loro realtà anche attraverso il cinema, per apprezzare la bellezza dell’incontro con altri mondi, per S-cambiarci i Mondi, ciascuno partendo dalle proprie origini.

Programma a cura di Barbara Massimilla.

Giovedì 7

Nuove Identità

ore 17,00 Presentazione della rassegna a cura di Barbara Massimilla

a seguire

Il segreto di Hamida di Cristina Mantis(2017, 11’)

L’incontro con il mondo occidentale visto attraverso lo sguardo spontaneo e saggio di una ragazza del Bangladesh che si sta affacciando all’adolescenza, chiamata a confrontarsi con l’esperienza, non priva di ambivalenze e difficoltà, del suo primo giorno di scuola in Italia, il Paese dove è appena arrivata con la famiglia. Nel tentativo di superare la dicotomia tra assimilazione ed emarginazione, Hamida trova un’illuminante terza via ispirandosi a una chiocciola, la quale, ovunque vada, porta sempre la propria casa con sé. Da questa suggestione la ragazza ricava una possibilità trasformativa in grado di ricomporre realtà apparentemente inconciliabili, senza tradire la propria identità femminile e culturale.

ore 17,30 The Immigrant di Charlie Chaplin (1917, 25’)

Tra i cortometraggi di Chaplin è uno dei più elaborati e quello più amato dall’autore, che vi riflette in chiave comica molte delle sue peripezie di giovane artista di vaudeville inglese immigrato negli Stati Uniti. I sempre attuali disagi degli immigranti ammassati in trasporti di fortuna e trattati con fredda diffidenza dalle autorità sono rappresentati con quell’intuizione comica e umana che spingerà Henri Michaux a definire Chaplin “attore dell’inconscio”. In questo equilibrio tra umorismo e poesia, è evidentemente autobiografico il ritratto ottimista e romantico del protagonista, un artista squattrinato che alla fine trova un modesto ingaggio e una compagna. Di questo cortometraggio Chaplin scriverà: “The Immigrant mi ha emozionato più di ogni altro mio film. Penso che il finale abbia un tocco davvero poetico”.

ore 18,00 Almanya – La mia famiglia va in Germania di Yasemin Samdereli (2011, 101’)

Storia di una famiglia di origine turca stabilitasi in Germania da tre generazioni e che torna in Turchia per trascorrere l’estate in una casa acquistata dallo stesso nonno ormai in pensione. Al viaggio “di ritorno” fa da contrappunto la narrazione di quello affrontato a suo tempo dai nonni emigranti in Germania, ricco di speranze e difficoltà, raccontato dalla nipote Canan, segretamente incinta, al cuginetto Cenk. Il sentimento di appartenenza ed estraneità ai due paesi, diversamente avvertito da giovani e anziani, attraversa l’intera famiglia che, nell’esperienza del viaggio attuale e di quello narrato, trova in se stessa una più forte coesione e identità.

ore 19,45 Incontro moderato da Barbara Massimilla con Antonella Antonetti, Massimo Germani, Andrea Magnani, Nicola Nocella, Emanuela Pasquarelli, Maria Rita Porfiri

ore 21,15 Easy – Un viaggio facile facile di Andrea Magnani (2017, 91’)

Un singolare film “on the road”, che attraverso gli occhi di un insolito protagonista racconta molto dell’opportunismo e del cinismo con cui i lavoratori immigrati sono a volte trattati in Italia. Easy infatti è Isidoro, un giovane ex-pilota di kart che si è progressivamente ritratto e isolato dalla realtà, mentre il fratello è un imprenditore edile che gli chiede di riportare clandestinamente in patria il corpo di Taras, un lavoratore “in nero” ucraino morto nel suo cantiere. Comincia così un viaggio che dovrebbe essere, appunto, “facile facile”, nel corso del quale al candore di Easy fa da contraltare prima l’Italia dello sfruttamento e dell’abusivismo, e poi, in un rocambolesco susseguirsi di surreali peripezie, un’Europa dell’Est aspra e primordiale, nella quale Easy scoprirà sempre più a fondo la vita di Taras. Premiato a Locarno Festival.

Venerdì 8

Culture ed Echi del Femminile

ore 17,00 Hope di Boris Lojkine (2014, 91’)

Leonard è un giovane camerunense che ha abbandonato il suo paese con il sogno di raggiungere l’Europa, trovare un lavoro e mandare aiuti alla famiglia. Lungo il suo itinerario incontra Hope una ragazza nigeriana travestita da uomo, disposta a tutto pur di salvarsi. Nel corso del viaggio tra i due si instaura un rapporto utilitaristico in cui ciascuno è indispensabile all’altro. Hope si prostituisce procurando denaro per pagare le tappe di un itinerario controllato dalle mafie locali e tra meccanismi spietati e regole feroci si innamora di Leonard mentre il ragazzo camerunense pensa unicamente al suo obiettivo. Solo nel finale i sentimenti più autentici potranno svelarsi. versione originale con sottotitoli in inglese

ore 19,00 Incontro moderato da Barbara Massimilla con Mariella Cortese, Patrizia Di Gioia, Andrea Occhipinti, Sabina Traversa

ore 21,00 Mustang di Deniz Gamze Ergüven (2015, 97’)

Lale, Nur, Ece, Selma e Sonay sono cinque giovani sorelle che vivono in un villaggio costiero della Turchia. Insieme partecipano alla festa di addio dell’insegnante di Lale, la più giovane. Al termine dei festeggiamenti le ragazze si uniscono a un gruppo di studenti maschi in spiaggia e lì si abbandonano a giochi in acqua, completamente vestite, dimentiche di ruoli e di regole. La notizia dello scandalo arriva alle orecchie della nonna e dello zio che le segregano in casa, cercando poi di soffocare lo scandalo attraverso matrimoni riparatori. Con tutte le loro forze e a carissimo prezzo le cinque sorelle, animate dallo stesso desiderio di libertà, proprio come i cavalli ‘Mustang’, si ribelleranno alle costrizioni imposte.

Sabato 9

Confini e difficili Coesistenze

ore 17,00 Il giardino dei limoni di Eran Riklis (2008, 106’)

Salma è palestinese e vive da sola in Cisgiordania, a due passi dal confine israeliano. La sua unica preoccupazione, con un figlio in America e il marito in cielo, è il suo giardino di limoni, ereditato dalla famiglia e fonte del suo sostentamento. Peccato che il suo nuovo vicino di casa sia il primo Ministro della Difesa israeliano che vede negli alberi di Salma una possibile schermatura a potenziali attacchi terroristici e quindi ne ordina lo sradicamento. Salma inizierà una battaglia legale infinita, sostenuta dal giovane avvocato Ziad e a distanza da Mira, la moglie del ministro che la osserva oltre il recinto. Entrambe le donne soffrono e si scoprono simili e solidali. Ma Salma sarà vittima di un potere troppo forte e più grande di lei. Un film che esplora barriere fisiche e spirituali di un conflitto senza fine.

ore 19,00 Incontro moderato da Barbara Massimilla con Alfredo Ancora, Andrea Arrighi, Giovanni De Robertis, Carla Dugo, Clementina Pavoni

ore 21,00 L’insulto di Ziad Doueiri (2017, 112’)

Beirut. Durante i lavori di restauro della facciata di un edificio, Yasser, rifugiato palestinese, capocantiere attento e scrupoloso, vorrebbe intervenire sull’impianto idraulico esterno di un appartamento. Toni, il proprietario, un cristiano libanese militante, meccanico di professione, lo aggredisce, demolendo la riparazione del tubo rotto. La lite si conclude con un insulto che Yasser lancia a Toni. Quest’ultimo, ferito nella sua dignità, decide di denunciarlo. Una questione privata che gradualmente, con il sostegno di uno studio legale importante scelto da Toni, diventa un processo di dimensioni nazionali seguito da tutta l’opinione pubblica. Lo specchio di una divisione antica e sempre presente nel paese che fa riaffiorare ferite profonde e mai sanate.

Domenica 10

Diritto al viaggio

ore 11,00 – Largo Cristina di Svezia

Concerto gratuito di pianoforte di Elizabeth Sombart

presso Associazione Résonnance Italia

ore 16,30 – Sala Trevi

Es I tempo di Djemberem di Cinzia D’Auria (2009, 17’)

Documentario ideato da un gruppo di artisti della Guinea Bissau. Il progetto è nato per sensibilizzare su temi scottanti del continente africano come guerra civile, colonizzazione, leadership, schiavitù, utilizzando la musica come potente strumento evocativo e “risuonante” che sostituisca al frastuono assordante e mortifero della guerra il suono dolce e armonioso della pace.

ore 17,00 L’ordine delle cose di Andrea Segre (2017, 112’)

Corrado è un funzionario del Ministero degli Interni italiano che lavora contro l’immigrazione clandestina. Il suo lavoro non è facile, cercando di mantenersi sempre in equilibrio, di mettere insieme la realtà libica con gli interessi europei, un compromesso che risulta spesso impossibile. Un giorno conosce Swada, una donna somala che sta cercando di fuggire dalla detenzione libica per raggiungere il marito in Europa. L’equilibrio di Corrado vacilla ancora di più: come tenere insieme la legge e il suo lavoro con l’impulso “umano” ad aiutare un altro individuo in difficoltà?

ore 19,00 Incontro moderato da Barbara Massimilla con Stefano Carta, Cinzia D’Auria, Filomeno Lopes, Giuseppe Riefolo, Andrea Segre

ore 20,00 Human di Yann Arthus-Bertrand (2016, 134’)

Il documentario straordinario e commovente di un grande fotografo e regista francese che si interroga sul senso della vita e dell’Umano. Attraverso diverse voci e con il potere delle immagini e delle parole, dialoga sulle questioni fondamentali dell’esistenza, trasmettendo la bellezza del nostro “essere nel mondo” che tocca le corde più profonde di noi stessi facendoci sentire la possibilità di essere tutti intimamente connessi.

Il segreto di Hamida – S-Cambiamo il Mondo

Il segreto di Hamida è la storia di una bambina del Bangladesh appena immigrata in Italia e del suo senso di estraniamento e solitudine a contatto con la sua nuova classe italiana. Le viene in aiuto una lumachina che le darà un’ ispirazione sorprendente, per integrarsi senza sacrificare la sua identità.

In collaborazione con:
Centro Sperimentale di Cinematografia –
Cineteca Nazionale

Con il Patrocinio di
Amnesty International
Associazione Italiana Psicologia Analitica
Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo
MigrArti MIBACT

Con il sostegno di:
Fondazione Migrantes
Associazione Italiana Psicologia Analitica
Cooperativa Sociale META

:

Regia
Cristina Mantis

Soggetto e sceneggiatura
Cristina Mantis, Barbara Massimilla

Fotografia/riprese
Leonardo Celi, Cristina Mantis

Scenografia
Timi Bylyku

Montaggio
Cristina Mantis

Musica
Alexandros Hahalis, Rakesh Chaurasia

Suono
Rocco Forte

Aiuto Regia
Elisa Galletto

assistente operatore
Sheikh Amanur Rahman

Cast
Ikra Islam, Basim Hmami, Tommaso Penso, Anna Savoca, Priscilla Celi, Huque Nusrate, Huque, Tiaba Huque, Sabina Traversa, Maria Rita Porfiri, Floriana Giorgia Cola, Diego Crescenzi, Leonardo Di Giacinto, Karim Jaber, Asfika Tanjum Khan, Nisey Mazi, Sara Pechini, Gian Maria Salerno, Kanis Fatama

Hamida nel velo-foto Mimmo Urzìa

Hamida testa bassa - foto Mimmo Urzìa

Hamida Guarda avanti - foto Mimmo Urzìa

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S-CAMBIAMO IL MONDO — II edizione 15-18 giugno 2017

S-cambiamo il mondo. Rassegna su cinema e migrazione Il cinema come strumento ideale per stimolare processi di reciproca curiosità e conoscenza che facilitino l’integrazione attraverso l’empatia e l’immedesimazione con/nell’altro.

In collaborazione con Centro Sperimentale di
Cinematografia-Cineteca Nazionale, con il patrocinio di Amnesty International sez. Italiana, Ministero dei Beni e delle
Attività Culturali, Associazione Italiana di Psicologia Analitica

Vogliamo un cinema non solo che emozioni ma che possa offrire spunti di analisi riguardo al sociale, al valore della coesistenza tra le culture e i popoli, che sensibilizzi alla bellezza dell’incontro con altri mondi, al piacere di conoscerli e non solo al dovere di rispettare chi viene da altre terre, da altri riti, da altri miti e religioni. La rassegna organizzata da DUN-Onlus e dalla rivista EIDOS cinema psyche e arti visive a cura di Barbara Massimilla prevede un’alternanza tra proiezioni di film e dialoghi interetnici e interculturali condotti da esponenti, stranieri e italiani, interessati al fenomeno della migrazione e al cinema attraverso uno sguardo psicoanalitico, antropologico, filosofico, socio-politico con la partecipazione di un pubblico multietnico. Quattro sezioni monotematiche coinvolgeranno giovani e adulti, di diverse nazionalità nella condivisione del cinema d’autore centrato sulle narrazioni culturali e sul diritto a migrare. Lo scambio riflessivo servirà a valorizzare e acquisire una maggior consapevolezza della propria identità culturale e di quella dell’altro oltre i confini delle proprie geografie interiori. Il video/sigla, logo di questa seconda edizione, ispirato liberamente da un frammento d’infanzia di una migrante è della regista Cristina Mantis. In collaborazione, come la prima edizione, con il Centro Sperimentale di Cinematografia-Cineteca Nazionale. Con il Patrocinio di Amnesty International Italia, Associazione Italiana Psicologia Analitica, Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo. Realizzata con il sostegno di Fondazione Migrantes, A.I.P.A e META.

Giovedì 15 giugno
«Nuove identità»: dialogo interculturale.
Interventi di Marco Rossano, Suranga Deshapriya Katugampala, Chiara Tozzi, Celestino Victor Mussomar

Venerdì 16 giugno
«Culture ed echi del femminile»: dialogo interculturale
con Stefano Carta, Ugoma Francisco, Sonya Orfalian, Habte Weldemariam

Sabato 17 giugno
«Lutto e Culture»: dialogo interculturale.
Intervento di Mons. Pierpaolo Felicolo (direttore Fondazione Migrantes-Roma), Clementina Pavoni, Filippo Strumia

Domenica 18 giugno
«Confini e difficili coesistenze»: dialogo interculturale.
Interventi di Riccardo Noury (portavoce Amnesty International), Gianluigi Di Cesare (vicepresidente A.I.P.A.), Paolo Masini e Chiara Fortuna (D.G.C. MIBACT), Filomeno Lopes,
Mukuna Samulomba Malaku

La valigia e la speranza

LA VALIGIA E LA SPERANZA

Kathiusca Toala Olivares [Ecuador]

Vincitore del premio G.A.L. dell’assessorato alla Cultura del Comune di Sabaudia (2006)

I
Roma. Quattro lettere, un nome. Io non sapevo nemmeno dove fosse e cosa fosse l’Italia, figuriamoci Roma. Al mio paese, l’Ecuador, quando si sogna di fuggire si pensa agli Stati Uniti non certo all’Italia. Dell’Italia sapevo solo che era il posto lontano dove erano andate una alla volta le mie zie, le mie cugine e mia sorella per scappare dalla miseria da cui eravamo tutte imprigionate. Un posto dove puoi lavorare per mandare soldi a casa e vivere per te stessa. Io fui l’ultima ad arrivare, era il 2002. Ci misi tanto a decidere, forse non fui nemmeno io a decidere. Ero arrivata ad un punto pericoloso della mia vita, vicina al non ritorno dall’inferno. Quattro figli da mantenere, un non compagno, non marito violento che mi stava uccidendo piano piano fisicamente, perché moralmente l’aveva già fatto tante volte. La fame, la violenza e la povertà ti fanno cadere in ginocchio e io avevo già fatto cose che mi porterò dentro per sempre come un marchio e una condanna. Ma dissi, o forse altri dissero per me, basta. Basta prima che fosse troppo tardi. Mi ritrovai su un aereo con un biglietto, un debito enorme ancora prima di iniziare a lavorare e una valigia senza spago, riempita in una notte con le poche cose che mi erano rimaste. Ne portavo molte di più dentro l’anima, ma erano cose che avrei lasciato volentieri fuori dalla valigia.
Avevo 27 anni ma mi sentivo come ne avessi vissuti il doppio. Arrivai una domenica mattina; non ricordo nemmeno se c’era il sole o faceva freddo. Per me fece freddo ancora per molti mesi, anche in piena estate. Era inizio Aprile e all’aeroporto c’erano tutti i miei parenti. Zie, sorella, cugina: mi presero per mano come si fa con i bambini e mi cominciarono a spiegare. Io mi tenevo stretta alla mia valigia non per paura che me la rubassero, era il mio cordone ombelicale, la mia compagna di viaggio e di speranza di rinascita. Intanto mi dissero che non potevano portami a casa e quindi saremmo dovute restare in giro tutta la giornata fino alla sera con la mia valigia, perché non si poteva rientrare e stare in casa da sole prima del ritorno dei signori da cui lavoravano.
Salimmo su un treno e mi annunciarono che saremmo andate alla Stazione Termini: lì avrei conosciuto tante altre persone del nostro paese, perché è li che ci si ritrova. Io ascoltavo, cercavo di sorridere, mi sforzavo, ma sinceramente non capivo ancora bene dove fossi. Fu mia zia, la più anziana del gruppo a chiedermi quanti soldi avessi con me. Cinquanta dollari risposi, era tutto quello che avevo nel passaporto. Mi mise in mano un foglio da dieci euro e mi disse: questa è la moneta; ho avuto il permesso dai signori di farti dormire da me per due notti. Mercoledì comincerai a lavorare dalla famiglia che ti abbiamo trovato. Ma in questi due giorni non potrai stare in casa Katty, dovrai prendere l’autobus e fare da sola. Andrai a conoscere la signora dove lavorerai, poi potrai fare quello che vuoi ma non tornare prima delle otto. E stai attenta agli uomini, specialmente agli italiani.
Io tremavo, non so se dal freddo o dalla paura. Forse era solo il freddo, perché la paura l’avevo già conosciuta bene nell’altra mia vita. Io vivevo in una città di mare dove c’è sempre il sole, Ecuador, lo dice anche il nome equatore e non sapevo cosa fossero giubbotti, cappotti o cose simili. Ci poggiammo su una panchina della stazione, qualcuna mi portò un panino e mentre lo mangiavo tornò una mia zia con un giubbotto pesante, nero, imbottito. Non avevo mai indossato niente di simile: tieni mi disse, è tuo, col primo stipendio me lo ripagherai. La ringraziai e indossandolo capii di essere arrivata a Roma: dovevo cominciare ad aprire la mia valigia.

II
La mia valigia si svuotò presto delle poche cose che avevo portato e cominciò a riempirsi di nuove situazioni, di piccole fotografie e ancor più piccole conquiste. Ricordo di averla riempita prima di tutto di parole: romane più che italiane: “ahò, ma ‘ndò vai, ammazza che ber culo”. Per noi straniere, peggio se giovani, era un prezzo obbligato da pagare. L’essere cose prima che persone. Mi vergognavo sinceramente ogni volta e ci stavo male: non capivo perché quando ti offrivano un caffè e tu magari per non morire di solitudine accettavi, non potevano fare a meno di cominciare a toccarti; prima una spalla, poi un braccio, poi magari anche la gamba finche non li fermavi e allora diventavano sgarbati, maleducati.
Il più stupido ricordo che ho è quello di un tassista, che una sera mi offrì la corsa gratis e cento euro se solo gli avessi fatto toccare le mie gambe. Era una sua mania mi disse, come fosse la cosa più naturale del mondo. Avevo voglia di mettermi a piangere: perché avevo fatto tutti quei chilometri, perché lavoravo a tempo pieno senza sosta sei giorni e mezzo la settimana per provare quelle stesse umiliazioni che avevo dovuto subire in precedenza? Ma poi ci dormivo su, pensavo ai miei quattro figli e a quanto stavo facendo per loro. Dopo un po’ cominciai anche a capire come fidarmi delle persone e come comportarmi. In fondo mettere in valigia una parolaccia, un “vaffanculo” non era cosi difficile.
Dopo la lingua e le parole, la mia valigia fu anche una sfida con la cucina. Io lavoravo a pieno orario presso una famiglia. Avevano una bambina che dovevo accudire e una casa da governare, quindi pranzi e cene da preparare. La cosa non mi spaventava: ne avevo accuditi quattro di figli, spesso senza avere niente per mangiare: qui avevo il frigorifero pieno e bastava mi facessi vedere sempre occupata. Ma che ne sapevo io della cucina italiana? I bucatini all’amatriciana spiegati dalla signora erano facili da preparare ma in Ecuador la pasta quasi non si usa, molto più il riso. Non scorderò mai la faccia della signora quando vide che invece di metterli nell’acqua che bolliva misi i bucatini crudi direttamente nella padella col sugo. Per me si cuocevano così, che diamine! Ci misi poco ad imparare e a riempire la mia valigia di sapori e gusti nuovi e non nego che sono diventata brava a cucinare italiano, mettendoci anche un pizzico di fantasia sudamericana. Oggi quando mi fanno un complimento per la lasagna mi inorgoglisco ma non posso fare a meno di ridere rivedendo in un attimo quella padella di bucatini crudi al sugo!
Nella valigia di un viaggiatore non dovrebbe mai mancare una mappa, una guida, ma la mia valigia aveva poco spazio per questo. Io per i miei primi quattro anni a Roma ho lavorato a tempo pieno e avevo libero solo il giovedì pomeriggio. All’inizio la fretta di dover imparare tutto un mondo di cose nuove, (lavatrici, lavastoviglie, detersivi per i panni, per i piatti, per i pavimenti, per le porte, per le finestre mio dio che confusione!) non mi lasciava molto tempo per rendermi conto di dove stavo, di che cosa fosse Roma.
Il giovedì pomeriggio per me era un autobus che mi portava a Piazza Mancini dove mi chiudevo in una cabina a parlare con i miei quattro figli per ore e poi una fuga a Stazione Termini, all’ufficio dove spedivo in Ecuador i soldi che guadagnavo. Qualche volta ci si incontrava al Colosseo, un punto di ritrovo per la comunità ecuadoriana, ma io francamente non amavo molto questi posti. Mi facevano tornare troppo la nostalgia e mi sentivo sradicata dal mio paese e non ancora inserita in questo. Né carne né pesce come dite qui. Con mia cugina preferivamo camminare; avevamo imparato per non perderci a seguire la linea dei binari che da Piazza Mancini arriva a Piazzale Flaminio.
Andavamo a piedi per risparmiare sul biglietto, perché questa è la realtà e anche un Euro può essere importante per chi a migliaia di chilometri ti chiede sempre qualcosa di materiale, visto che l’affetto non puoi darglielo più. Avanti e dietro, avanti e dietro: qualche volta ci spingevamo fino a Via del Corso per lasciarci incantare da quelle vetrine che potevamo solo guardare. Forse erano sei mesi o forse più che stavo a Roma, quando un giorno all’altezza di Via Flaminia vicino la chiesa di Santa Croce, una signora un po’ anziana ci si avvicinò dicendo: “Scusatemi non sono pratica di questa zona, ma dove si va per Piazza Euclide?” Mia cugina stava lanciandosi nella solita formula “Siamo dell’Ecuador ci scusi non sappiamo” quando la fermai con un braccio. Il giorno prima il signore presso cui lavoravo mi aveva mandato a ritirare alcune analisi proprio in un laboratorio vicino Piazza Euclide. Spiegai la strada per filo e per segno alla signora, muovendo le braccia come facevano i romani a cui chiedevo io informazioni. La signora ringraziò e se ne andò verso Euclide. Mia cugina mi guardava perplessa: io mi sentivo orgogliosa di me stessa e cominciavo a prenderci gusto. La mia valigia cominciava ad essere sempre più piena, ordinata e senza pesi inutili.

III
Una valigia che si rispetti porta con sé anche qualche maquillage per l’anima. Alle volte mi sentivo come un clown: dovevo truccarmi per nascondere le cicatrici e regalare un sorriso a chi di me conosceva solo l’involucro esterno. Poi circa due anni dopo, la maschera si sciolse e la mia valigia cominciò ad essere troppo piccola per contenere il sentimento più grande e più bello. Io ero incredula perché questo non l’avevo messo in preventivo e venivo da un passato troppo brutto. Poi non sapevo bene cosa poteva essere il mio futuro, andare via rimanere, ma la passione prese il sopravvento e Roma ci mise del suo.
Stefano non si risparmiava: ogni giovedì qualcosa di nuovo da mettere in valigia: i tramonti, i vicoli, gli angoli di Testaccio e poi San Pietro, tanti anni a Roma e per la prima volta San Pietro. Non c’è un doppio fondo nella mia valigia e forse non ci sono più angoli dove si nascondono frammenti dell’anima.
Io come tutti ho avuto qualche problema piccolo, qualcuno più grande, ma devo dire che nella mia valigia non ha trovato posto il razzismo. A volte mi hanno trattata con sospetto perché straniera, altre volte con commiserazione perché povera, qualche idiota ha cercato di approfittarsi e quelle volte che è successo forse le ho rimosse. Preferisco ricordare la gentilezza delle impiegate della Posta che qualche volta hanno chiuso gli occhi su qualche lieve eccedenza peso dei pacchi che mensilmente spedivo in Ecuador; preferisco ricordare la fiducia che i miei datori di lavoro mi hanno accordato quando sola e senza nessuno a cui poter chiedere, dovetti rivolgermi a loro per saldare i debiti verso chi mi aveva pagato il biglietto aereo, facendomeli trattenere un po’ alla volta sullo stipendio.
Preferisco ricordare la cortesia di chi negli uffici pubblici cercava di aiutarmi a raccapezzarmi tra le pastoie della burocrazia per ottenere il tanto sospirato permesso di soggiorno; preferisco ricordare la gentilezza di quel medico che mi curò malgrado il mio libretto sanitario fosse scaduto e io non l’avessi rinnovato perché il giovedì pomeriggio avevo sempre altro da fare.

IV

Fu una mattina, all’improvviso. Mi alzai e la trovai lì, mi guardava pur non avendo gli occhi. Le mandai un sorriso che non ricambiò e mai avrebbe potuto; la carezzai dolcemente come si fa con una persona cara. Andai all’aeroporto, la sollevai e la poggiai lentamente sulla bilancia. L’impiegato la mise sul nastro che la ingoiò velocemente. Chiusi gli occhi e sentii il rombo di un aereo in lontananza.
Dopo quattro anni lei era tornata da dove era venuta, io potevo restare; il mio viaggio era finito, il suo appena cominciato. “Tenetela cara figli miei” fu l’unica cosa che scrissi nel biglietto che l’accompagnava.

S-CAMBIAMO IL MONDO

S-cambiamo il mondo. Rassegna su cinema e migrazione Il cinema come strumento ideale per stimolare processi di reciproca curiosità e conoscenza che facilitino l’integrazione attraverso l’empatia e l’immedesimazione con/nell’altro.
10.06.2016 – 12.06.2016
«È urgente la necessità di analizzare, comprendere ed elaborare le possibili modalità d’incontro, che le persone attivano nel loro essere in movimento verso le terre e l’altro – per un’analisi approfondita che non riduca e limiti la dignità dell’uomo ad un numero, deprivandolo del diritto fondamentale ad essere riconosciuto e legittimato nella sua specifica identità etnica e culturale. In questo contesto il cinema appare strumento ideale per stimolare questi processi di reciproca curiosità e conoscenza che rendono possibile l’integrazione attraverso l’empatia e l’immedesimazione con/nell’altro. La rassegna, organizzata da DUNOnlus, associazione dedicata alle cure gratuite psicologiche ai migranti, dalla rivista EIDOS cinema psyche e arti visive, in collaborazione con Cooperativa Sociale META, Centro Sperimentale di CinematografiaCineteca Nazionale, con il patrocinio di Amnesty International sez. Italiana, Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, Associazione Italiana di Psicologia Analitica, attraverso incontri e proiezioni di film sulla migrazione invita un pubblico multietnico a una profonda riflessione sul tema dell’uguaglianza che ci coinvolge tutti sul piano umano ed etico» (Barbara Massimilla).

Venerdì 10 ore 17.00 Presentazione della rassegna con Alberto Angelini, Luigina Malatesta, Barbara Massimilla, Annamaria Sassone



Tra arte e migrazione ore 17.30 Incontro moderato da Barbara Massimilla con Erica Battaglia, Filomeno Lopes, Sonya Orfalian, Jean Léonard Touadi




ore 18.30 Anche io ho un nome e cognome di Cinzia D’Auria e Filomeno Lopes (2015, 20′) Partendo dall’importanza del nome nella tradizione africana, il video porta avanti una campagna di sensibilizzazione sul problema dell’immigrazione e del razzismo. In particolare, con l’aiuto della musica, pone l’attenzione sull’uso improprio di termini linguistici che contribuiscono a creare stereotipi e ad acuire le tensioni razziali.

ore 19.00 Mediterranea di Jonas Carpignano (2015, 107′) Il film d’esordio del giovane regista italo-americano, presentato alla 54° Semaine de la Critique di Cannes 2015, si ispira alla rivolta dei braccianti africani di Rosarno nel 2010. Ayiva lascia il Burkina Faso con la speranza di trovare un lavoro per sostenere sua figlia e la famiglia d’origine in Africa. Dopo un lungo e doloroso viaggio approda in Italia e cerca di inserirsi in un paese della Calabria vivendo un clima di ostilità e tensione. Per gentile concessione di Luxbox

ore 21.15 Incontro con Cristina Mantis e un rappresentante di Amnesty International

a seguire Redemption Song di Cristina Mantis (2015, 70′) Nel momento più caldo delle migrazioni e degli sbarchi sulle coste europee, Cissoko, un rifugiato nordafricano, decide di tornare in patria per dissuadere i suoi fratelli a partire per un falso sogno. L’intento è allertare i suoi fratelli in Africa sui rischi dell’emigrazione, con l’obiettivo di dare un contributo ad arginare la perdita umana dell’Africa. Giunto in Guinea, inizia a fare delle proiezioni che informino la sua gente sulle precarie condizioni in cui vivono molti immigrati, spesso drammaticamente vicine alla schiavitù, e si sposta in Senegal, a Ile de Gorée, per una più forte riflessione. “Virtualmente” accompagnato nel suo viaggio da alcuni artisti che rafforzano il sound emotivo e dal ricordo di Thomas Sankara, il protagonista sollecita la sua gente verso un’emancipazione interna della propria terra, convincendoli sulla necessità della fine dei conflitti che tanto la impoveriscono e porta ad esempio i discendenti degli schiavi che vivono nei quilombi brasiliani, pacificamente uniti e fieri delle loro origini africane. Il 13 febbraio 2016, all’isola di Gorée in Senegal, si è tenuta la prima presentazione ufficiale del documentario in Africa Occidentale; è poi stato proiettato in alcuni centri della periferia di Dakar.

a seguire Performance musicale dal vivo di Moustapha Mbengue, Moussa Ndao, Emilio Spataro

sabato 11 Memorie di migrazione e attualità ore 17.00Incontro moderato da Barbara Massimilla con Davide Albrigo, Luisa Cerqua, Marzia Mete, Stefano Rulli, Matteo Sanfilippo


ore 18.00 Lettere dal Sahara di Vittorio De Seta (2004, 123′) Assane, un giovane senegalese musulmano, dopo la morte del padre, interrompe gli studi per emigrare in Italia. Naufraga a Lampedusa. Riesce a fuggire, raggiunge Villa Literno, vicino Napoli, dove un cugino, Makhtar, gli ha assicurato un lavoro. L’impiego si rivela precario, l’ambiente pericoloso. Raggiunge a Firenze una cugina, di madre francese, indossatrice di moda. Salimata lo ospita, potrà trovargli lavoro, metterlo in regola con i documenti. Ma Assane non può accettare il fatto che Salimata conviva con un architetto italiano perché contrario ai suoi principi religiosi. A Torino, dove non conosce nessuno, sorretto dalla fede e dalle lettere d’incoraggiamento di un suo anziano professore, affronta le dure prove della clandestinità.

ore 20.10
Incontro moderato da Barbara Massimilla con Ugoma Francisco, Nicole Janigro, Andrea Segre, Cecilia Sena Monteiro

ore 20.45 Io sono Li di Andrea Segre (2011, 102′) Shun Li è un’immigrata cinese che lavora a Roma in una fabbrica tessile facendo molto più del necessario per pagare il suo debito e far venire suo figlio, rimasto in Cina, in Italia. Trasferita a Chioggia per fare la barista, lavora in un’osteria frequentata soprattutto da vecchi pescatori. Sorgono alcuni problemi, primo fra tutti la lingua, fortunatamente Li farà amicizia con un vecchio pescatore chiamato il Poeta, jugoslavo e immigrato in Italia da ormai 30 anni. Tra Shun Li e il pescatore nasce una relazione che è malvista da tutti, sia italiani che cinesi. Per evitare che influisca negativamente sulla possibilità che arrivi il figlio, Shun Li decide di interrompere la relazione e va a lavorare in una fabbrica import-export. Un giorno, molto prima del previsto, arriva suo figlio dalla Cina con grande gioia per la madre, che si chiede chi abbia pagato il suo debito. Il pensiero di Shun Li va all’amico pescatore di Chioggia, cerca di informarsi, ma un’amara sorpresa la attende.

ore 22.30 Mare chiuso di Andrea Segre e Stefano Liberti (2012, 60′) Tra maggio 2009 e settembre 2010 oltre duemila migranti africani vennero intercettati nelle acque del Mediterraneo e respinti in Libia dalla marina e dalla polizia italiana; in seguito agli accordi tra Gheddafi e Berlusconi, infatti, le barche dei migranti venivano sistematicamente ricondotte in territorio libico, dove non esisteva alcun diritto di protezione e la polizia esercitava indisturbata varie forme di abusi e di violenze destinando tutti i clandestini alla detenzione. Nel marzo 2011, lo scoppio della guerra in Libia ha permesso la fuga dalle carceri a migliaia di migranti, tra i quali anche profughi etiopi, eritrei e somali che erano stati respinti dalle autorità italiane, trovando rifugio nel campo UNHCR di Shousha in Tunisia, dove raccontano la loro esperienza di fronte alla telecamera degli autori. Per gentile concessione di ZaLab

domenica 12 Donna e migrazione ore 16.30 Incontro moderato da Barbara Massimilla con Alfredo Ancora, Laura Bispuri, Cristina Comencini, Habte Weldemariam

ore 17.15 Bianco e nero di Cristina Comencini (2008, 100′) Elena è una professionista che lavora in un’organizzazione che si occupa di Africa. Suo marito Carlo, completamente disinteressato al mondo della moglie, a una conferenza per la presentazione di una campagna di sensibilizzazione sui problemi del continente africano, conosce Nadine, la bella moglie senegalese di un collega di Elena. Tra i due nasce un amore, e alle difficoltà della relazione extraconiugale si mescoleranno quelle di un amore inter-etnico, mettendo a nudo paure e i pregiudizi da parte di entrambe le etnie.

ore 19.00 La vergine giurata di Laura Bispuri (2015, 90′) Hana è un’orfana albanese, vive da un montanaro sposato e con una figlia di nome Lila, coetanea di Hana. In quel contesto, la donna è costretta a seguire le rigide regole del Kanun, diritto civile attivo tra i montanari albanesi che, in mancanza di figli maschi, possono spingere una donna ad autoproclamarsi uomo, seguendo quel tipo di formazione e rinnegando tutti gli aspetti del femminile. Hana diventa Mark e condurrà una vita da uomo. Quando molti anni dopo Mark arriverà in Italia, il contatto con una cultura diversa le consentirà di ricercare la Hana sepolta. Per gentile concessione di Vivo Film

Lampedusa: un’isola senza confini ore 20.45 Incontro moderato da Barbara Massimilla con Stefano Carta, Massimo Germani, Alfredo Lombardozzi

ore 21.30 Fuocoammare di Gianfranco Rosi (2016, 106′)
Fuocoammare è stato premiato con l’Orso d’oro al Festival internazionale del cinema di Berlino. Seguendo il suo metodo di totale immersione, Rosi si è trasferito per più di un anno sull’isola di Lampedusa facendo esperienza di cosa vuol dire vivere sul confine più simbolico d’Europa, raccontando i diversi destini di chi sull’isola ci abita da sempre, i lampedusani, e chi ci arriva per andare altrove, i migranti. Da questa immersione è nato Fuocoammare. Racconta di Samuele che ha 12 anni, va a scuola, ama tirare con la fionda e andare a caccia. Gli piacciono i giochi di terra, anche se tutto intorno a lui parla del mare e di uomini, donne e bambini che cercano di attraversarlo per raggiungere la sua isola. Ma non è un’isola come le altre, è Lampedusa, approdo negli ultimi vent’anni di migliaia di migranti in cerca di libertà. Samuele e i lampedusani sono i testimoni a volte inconsapevoli, a volte muti, a volte partecipi, di una tra le più grandi tragedie umane dei nostri tempi.